LA RIVOLTA ANTI-BARONALE DI MONTECOSARO DEL 1568 E L’UCCISIONE DEGLI ATTENDOLO
di Alfredo Maulo
La sera del 2 Agosto 1568, sotto il pontificato di Pio V Ghislieri, la piazza antistante l’edificio in cui oggi si sta svolgendo questo nostro convegno, fu teatro di una rivolta, nel corso della quale furono uccisi l’uditore/luogotenente Dario Attendolo e suo figlio Francesco. Dario era il luogotenente del marchese Giovangiorgio Cesarini (1550-1585), signore di Civitanova e Montecosaro. Quelli erano i giorni degli appelli, delle tassazioni, delle fortificazioni – come nel vicino porto di Ancona – in preparazione dello scontro tra cristiani e musulmani che si sarebbe verificato a Lepanto tre anni dopo.
Non esiste altra indagine, né antica né moderna, su quella rivolta se non quella pubblicata da Aldo Bassi in due riprese tra gli anni ottanta e novanta del Novecento [1]. Bassi studia gli atti comunali seguiti alla rivolta, ma soprattutto riprende l’unica fonte, dimenticata, che ci illustra i movimenti dei rivoltosi in piazza: è l’interrogatorio di uno degli imputati, trascritto, presumibilmente da una copia dell’originale, dal pievano montecosarese Lampadio Lamponi in un suo manoscritto del 1678, 110 anni dopo i fatti [2]. Dalla documentazione reperita da Aldo Bassi e da un’attenta rilettura del secentesco manoscritto del Lamponi deriva sostanzialmente questo mio intervento.
Parto subito con la figura dell’uditore ucciso, insieme a suo figlio Francesco, il 2 Agosto 1568, a Montecosaro: Dario Attendolo (o Attendoli). Debbo alle corrispondenze trovate in rete, la certezza che l’uditore assassinato con il figlio a Montecosaro nel 1568 altri non era che il Dario Attendolo di Bagnacavallo, noto a diverse fonti come soldato, uomo di legge e di lettere di quel secolo [3]. L’identificazione è certa a mio sicuro avviso, anche se tutte le fonti ignorano sia che lo scrittore-giurista-soldato sia stato ucciso, sia che sia stato ucciso, insieme a suo figlio Francesco [4], a Montecosaro il 2 Agosto 1568.
Messer Dario era stato allievo a Ferrara del giurista Giovanni Roncagalli Gioldi, poi uomo d’armi nelle fanterie di Carlo V in Italia. Era anche poeta in volgare [5]. Di lui, ci resta un trattato cavalleresco sul tema dell’onore, di grande successo ai suoi tempi: “Il duello”, pubblicato nel 1560 a Venezia e dedicato ai conti Sforza di Santa Fiora [6]. L’ultima ristampa del “Duello” è del 1565 [7]. Appena tre anni prima della sua uccisione a Montecosaro.
L’invio a Montecosaro dell’Attendolo, scrittore con esperienza di armi e di leggi, non fu presumibilmente casuale. Lo scrittore-soldato venne forse visto come l’uomo giusto per provvedere con fermezza ad una situazione che, da un paio d’anni, con la morte del marchese Giuliano I Cesarini padre di Giovangiorgio, a Montecosaro stava precipitando. I montecosaresi, in genere riottosi e insofferenti del governo baronale, davano ormai segni plateali di sfida ai Cesarini ed ai loro uomini in paese. Il malcontento era generale e veniva anche dai più moderati. Si era rafforzato e diventava sempre più incattivito, in sede consiliare e fuori di essa, il gruppo avverso al governo baronale, quello, cioè, che si definiva degli “ecclesiastici”, quello che nel nuovo papa Pio V Ghislieri (p. 1566-1572) e nella sua recente bolla “De non infeudando”[8] del Marzo 1567, cercava ancora la speranza di essere sollevati definitivamente dal giogo feudale, come successo, seppure solo per due o tre anni, sotto il papa Paolo IV Carafa (p. 1555-1559). Proprio per questo, i loro legami con la curia pontificia provinciale di Macerata erano sospetti ed insidiosi per il feudatario ed il suo luogotenente.
Alla fine del 1567, i fratelli Luceo (o Lucci, come successivamente questo cognome si stabilizzerà), notabili del paese, avevano osato mettere le mani al collo del precedente luogotenente Luca Cucciatto, fino quasi a soffocarlo [9]. Ed invece che davanti al giudice come ribelli, erano finiti insieme ad altri, protetti e nascosti, a Roma, davanti al papa, come perseguitati. E al papa avevano raccontato tutto il male del governo baronale a Montecosaro, tanto da convincere Pio V – San Pio V – ad ordinare al governatore della Marca pontificia [10], di mandare un suo uditore a Montecosaro perché ascoltasse in sede consiliare e “senz’altro rispetto e con quella libertà che si conviene” [11], che cosa veramente stesse lì succedendo. Ed a grande maggioranza di 33 su 40, alla presenza di quell’uditore del governatore della Marca di Macerata [12], il Consiglio generale dell’8 Febbraio 1568 votò di inviare a Roma tre pubblici procuratori per esporre al papa “li aggravi di questa povera Comunità ed homini patiti dalli Illustrissimi Signori Giuliano Cesarino e Giovangiorgio suo figlio e da lor ministri, agenti e soldati” [13], per chiedergli di mandare a Montecosaro un suo personale commissario con autorità di giudicare, per implorarne finalmente “la restituzione alla pristina libertà ecclesiastica” [14] della loro martoriata “terra”.
Era avvenuto ancora che i montecosaresi, sempre più audaci, avevano gridato a squarciagola “chiesa, chiesa, libertà, libertà, e chi non vuole non veda”, in occasione dei festeggiamenti per la festa dell’Annunziata 1568, mentre si faceva la leva militare in mezzo ad una gran folla, presenti le autorità comunali. E non finivano più, in paese, le conventicole e le cospirazioni segrete nelle case, tutte animate da uno scatenato Ippolito Lucci e compagni [15].
Ce n’era abbastanza perché si preoccupassero, a Roma, il giovane feudatario marchese Giovangiorgio Cesarini, sua madre vedova Giulia Colonna Cesarini (m. 1571), figlia di Prosperetto duca dei Marsi, i cardinali Alessandro Sforza di Santa Fiora (1534-1581) e Alessandro Farnese (1520-1589), parenti e curatori dell’erede Cesarini ancora minore[16]. I due potenti reverendissimi, per altro, avevano anche qualche motivo contingente per interessarsi all’andamento di quei feudi marchigiani dei Cesarini: Dario Attendolo era un uomo dello Sforza, era stato al suo servizio, a lui e ai fratelli di lui rendeva omaggio nel Duello; il Farnese, con contratto del 1564, aveva promesso in sposa la figlia undicenne Clelia a Giovangiorgio, che effettivamente la sposerà nel 1571[17]. Non è difficile, dunque, supporre su consiglio di chi e soprattutto perché si fosse fatta la scelta dell’Attendolo a Montecosaro.
Finì, però, come finì. Dario Attendolo venne braccato ed orrendamente ucciso come “il tasso nella tana”, insieme a suo figlio, paradossalmente al grido di “traditore …. traditore…” [18]. Paradossalmente perché egli aveva sostenuto, in una sua pubblicazione del 1562 poi allegata al “Duello” [19], che ogni sorta di offesa poteva essere indotta alla pace, fatta eccezione per il tradimento. Appunto. Fatale ironia della sorte? Atroce contrappasso agito dai montecosaresi? O forse solo insulto per qualche recente provvedimento odioso? [20]
Pur con tutte le cautele dovute alla conoscenza di un solo atto, non originale e, per di più, frutto di una confessione ottenuta sotto tortura, mi sentirei di affermare, anche se in contrasto con Aldo Bassi, che quella rivolta non fu né spontanea né veramente popolare. In ogni caso, non fu niente spontaneo e niente popolare il duplice delitto avvenuto nel corso di essa. Si trattò piuttosto di un complotto, messo a punto da alcuni notabili di Montecosaro e loro seguaci, favorito dalla gran confusione e dagli equivoci provocati dall’afflusso di tanta gente in piazza richiamata astutamente con il suono della campana civica “ad arma”.
Il complotto avvenne – è verissimo – in un contesto di generale e forte malcontento per l’amministrazione feudale, ma anche ai danni della minoranza consiliare e presumibilmente di una parte consistente della popolazione che, pur ferita dall’oppressione feudale, era lontanissima da soluzioni estreme [21]. Il tutto a fronte, certo, della incapacità del feudatario, romano e distante, arroccato sulla tradizionale prassi amministrativa dei baroni romani, che poco o nulla aveva a che fare con la secolare esperienza di libertà comunali, di indulti, di particolarismi della Marca pontificia. Politicamente e paradossalmente, l’effetto vero di quel complotto fu quello di dare definitiva stabilità al dominio feudale, che pure, nei suoi 15 anni di vita, era stato spesso dai sudditi di Montecosaro e di Civitanova, fatto ballare o traballare al suono di contenziosi, denunce e contrarie petizioni al papa.
Tutto ebbe inizio non si sa se all’ora di pranzo o di cena del 2 Agosto 1568. Ai rintocchi dell’allarme, tutti i montecosaresi di sesso maschile ed in età utile abbandonarono la tavola e, come da statuto comunale, corsero in piazza armati di quello che potevano. In piazza accorsero armati – perfetti pesci in barile – anche alcuni notabili del paese che erano parte dell’allora maggioranza consiliare, come Ippolito Lucci, Enea Galizia, Vincenzo Novelli, Ercole Pellicani, Bonfiglio Gianuario (o Gennari, come questo cognome si stabilizzerà)[22]. Enea Galizia, notaio, era allora portavoce della maggioranza consiliare, Ippolito Lucci era addirittura uno dei tre priori comunali pro tempore, Ercole Pellicani era figlio del notaio Piersante, già procuratore presso la curia di Macerata e noto in tutta la Marca. Tutti armati. Come armati erano il calzolaio Domenico, il sarto Giovanni Antonio, lo stesso falegname Marino di Salvatore Tiburzi ed altri dai nomignoli popolari come Trombolo, Farosce e Popone co’ le carze roscie [23].
Il senso della rivolta apparve chiaro anche alla parte inconsapevole degli intervenuti in piazza, quando si cominciò a sparare contro le finestre della curia marchionale, dove si erano appena insediati l’Attendolo e suo figlio Francesco. Una ventina di uomini stavano pronti ad uccidere, al loro posto presumibilmente prestabilito, appostati all’entrata, all’uscita, su per le scale e fin sul tetto della curia baronale. Un prigioniero (presumo, dal racconto del pievano Lamponi, che si trattasse di Bonfiglio Gennari) fu all’origine o l’ occasione della rivolta; liberato dai rivoltosi, si unì a loro e venne visto procurarsi un’arma con i ferri ancora ai piedi. Il priore Ippolito Lucci, armato di una pistola e d’altro ancora, si prodigò per agevolare i sicari fuori e dentro la curia baronale. Dopo circa un’ora e mezza dall’inizio della baraonda, Dario e Francesco Attendolo furono scovati ed uccisi in una stanza della curia, dove un gruppo di rivoltosi aveva fatto irruzione forzando la resistenza degli armati di guardia e disarmandoli. I corpi insanguinati degli uccisi vennero orrendamente calati sulla piazza e lì esposti agli insulti ed ai dileggi.
Dopo la rivolta. Nel paese sconvolto ed ancora protetto da una barriera di paura ed omertà, il primo atto del governatore della Marca (Alessandro Pallantieri, 1505-1571, subito intervenuto), e del nuovo luogotenente del feudatario, fu quello di coinvolgere, attraverso uno strumento rogato ad hoc dal notaio Francesco Antolini di Porcula[24], le due assemblee comunali nella repressione dei responsabili: mossa astuta che ruppe la barriera di omertà e mise definitivamente fuori gioco la fazione degli “ecclesiastici” di Montecosaro. Dopo questo primo passo, le indagini ed i processi. Questi in numero finora non precisato. Che tredici siano state le condanne a morte ci dice solo la tradizione orale legata alla persistenza di altrettanti tristi e ammonitori rintocchi della campana civica fino almeno all’Ottocento, detti popolarmente “li guai de Montecò”. I cadaveri dei giustiziati per impiccagione vennero esposti alle finestre del Palazzo Vecchio , che è esattamente quello in cui ora siamo noi, seppure modificato, con teatro incluso, tra Sette e Ottocento. Certi finora, per riscontri documentari, solo i nomi di sei dei tredici condannati a morte: oltre a quelli di Ippolito Lucci e Marino di Salvatore, quelli ancora del notaio Girolamo Gennari, di Bonfiglio Gennari, di Simone Rosselli, di Nicola di Mero [25]. Numerose le confische di beni, compresi lasciti testamentari ed eredità. Fughe in Dalmazia. Non si sa bene di pene diverse da quella capitale, che sicuramente ci furono.
Complotto, rivolta o tutte e due le cose? Il falegname Marino di Salvatore, in sede processuale, cercò disperatamente di far passare il duplice omicidio come conseguenza naturale e spontanea della rabbia dell’intero paese, esplosa al suono della campana a martello, suonata – lui dice – di non sapere da chi. Fa, sotto tortura, un trentina di nomi di persone armate in piazza, sicari compresi, ma continua a ripetere che in piazza c’era “quasi tutto il popolo di Montecosaro”. Il giudice di rimando: “Perché, secondo te, “quasi tutto il popolo” è sceso così facilmente in piazza”? Il falegname risponde: “Ognuno corse volentieri ai rumori contro l’uditore per l’odio che il popolo aveva del signore di non voler stare sotto il suo dominio perché ognuno desiderava la libertà e di qua credo sia venuto che il popolo si mosse facilmente contro la corte” [26]. Questa frase, pronunciata da un povero artigiano dopo una lunga e straziante tortura per fargli dire il contrario, fa tremare la tesi del complotto, lo riconosco. Nuove carte che spero si troveranno, ci chiariranno meglio.
Quanto a me, mi chiedo perché mai alcuni notabili della seconda metà del Cinquecento, di un centro murato della Marca con poco più di mille anime, alcuni di essi di buona cultura giuridica e amministrativa [27], abbiano sfidato la morte, l’esilio, la durissima reazione del feudatario sulla comunità, l’impoverimento dei figli, il tutto e per tutto, per non ottenere niente. Mi inquieta la scelta, ma anche il dramma vissuto dal priore Ippolito Lucci, correo e forse a capo del complotto, che continuò a presiedere le assemblee comunali per giorni ancora dopo i fatti, a collaborare con l’autorità inquirente per punire i responsabili del delitto [28]. Ma qui, penso anche, la meraviglia e l’incredulità sono, storicamente parlando, fuori luogo: quei fatti di Montecosaro 1568 – rivolta o complotto che siano stati – ebbero motivazioni, modalità, esiti non diversi da quelli di migliaia di altri fuochi anti-feudali ed anti-fiscali, quasi sempre violenti, che si accesero in Europa dal Medioevo alla Rivoluzione Francese.
Una brevissima appendice, infine. Debbo alla cortesia di Patrizia Rosini, studiosa dell’epistolografia privata di alcune grandi famiglie italiane del passato, la copia di quattro lettere del carteggio della duchessa Cornelia Caetani Cesarini [29]. Le lettere risalgono agli anni 1615-1617, quelli della residenza dei duchi romani a Civitanova. Fanno qualche luce sulla sorte dei beni confiscati ai condannati di Montecosaro del 1568. Una di esse può dirsi eccezionale: è il memoriale del montecosarese Agostino Luceo o Lucci [30], stesso cognome di uno dei protagonisti della rivolta. Agostino Luceo, ricorrendo prima all’intermediazione dei cardinali Roberto Bellarmino[31] e Bonifazio Caetani [32], poi a quella di Onorato Caetani[33] – implora dal duca di Civitanova Giovangiorgio II, nipote dell’omonimo marchese feudatario al tempo della rivolta del 1568, “che volesse agiutarlo a dotar la sua propria figliola d’età di 30 anni col farli dono d’un pezzo di terra di sette rubbi in circa quale l’anno 1568 fu confiscato alli quondam Venanzo Feltrucci [34] e Marino di Salvatore per delitto di Rebellione da loro commesso in detta terra di Montecosaro”. Chiede anche ai suoi intermediari di portare “à memoria di Sua Eccellenza che simili doni di beni confiscati sono stati fatti à persone di minor bisogno et conditione”.
Con il cardinale zio, il duca liquida quella richiesta in poche parole: no, perché “ad Agostino Luceo furono confiscati à M.te Cosaro li beni…. al tempo del Signor Gio:Giorgio mio Avo per causa di Rebellione”. Il Lucci torna alla carica con il memoriale, questa volta per la duchessa. Si difende da quell’accusa, racconta di essere ridotto al lastrico “per esserli state usurpate le doti di sua moglie et di sua suocera et l’eredità di suo suocero con violente falsità et notorie ingiustizie et anco per molti naufragi patiti nella sua patria con manifeste et calunniose persecuzioni”, e implora ancora la concessione di quei sette rubbi di terra. Ma la diciassettenne duchessa di Civitanova e padrona di Montecosaro, non osa neppure informarne il marito. Risponde piuttosto seccata al fratello intermediario: “Agostino Luceo pretende di maritare la sua figlia con la robba del Signor Duca mio consorte”.
Comunque stiano le cose e l’identità di quel Lucci, sappiamo, da quel memoriale, che i Cesarini, già a partire forse dallo stesso marchese Giovangiorgio I (1550-1585), donarono agli indigenti di Montecosaro parte dei beni sequestrati ai rivoltosi e da loro incamerati dopo la rivolta del 1568[35]. Un’altra parte di quei beni restava proprietà della Camera ducale ancora nel 1617 e non so per quanto tempo ancora.
(Relazione di Alfredo Maulo al Convegno “i duchi Cesarini e Sforza Cesarini a Civitanova M., Montecosaro e Genzano di Roma” . Montecosaro (MC), Teatro delle Logge, 29 Novembre 2008).
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